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Cagliari, leggenda d’una epoca irripetibile. 50 anni dallo storico scudetto

(di Massimiliano Morelli)* – Come il più pesante dei granelli di sabbia d’una spiaggia nuda, neanche calpestata da uno stormo di gabbiani in planata sulla battigia. Talmente pesante quel granello che ancora ti chiedi sia possibile averlo davvero raccolto cinquant’anni fa, in quell’assolato 12 aprile che sulle gradinate dello stadio Amsicora già sapeva di mare.  Lo scudetto del Cagliari rappresenta la rivincita di una terra da sempre dimenticata dal potere centrale dello Stato, il primo trionfo di una squadra del Sud nel contesto di un torneo dominato da sempre e per sempre da chi ha soldi da spendere e che corre lungo l’asse Milano-Torino senza soluzione di continuità. Quello scudetto arriva cinquant’anni dopo la fondazione, sei anni dopo la prima storica promozione in serie A, mentre quella formazione, da allora, viene snocciolata con lo stesso identico stile con cui si “cantano” le formazioni che hanno fatto la storia dell’italico football: il Grande Torino, il Bologna che faceva tremare il mondo, l’Inter di Herrera, la nazionale mundial del 1982. Cantilene di nomi che trasformano l’ascolto di chi ama il calcio in poesia d’alto rango, manco s’acoltasse musica di Chopin.
Quell’apoteosi risponde al  nome di un allenatore-filosofo, Manlio Scopigno, il primo e l’unico tecnico nell’ultracentenaria storia del nostro calcio capace di dire “no, grazie” al ritiro precampionato; risponde al nome di Gigi Riva, uomo tutto d’un pezzo, nessuna macchia e due gambe frantumate per onorare la maglia azzurra, con buona pace d’un Cagliari che fu costretto a rinunciare, senza quel Cid Campeador nato fra le nebbie lombarde, a un altro scudetto e per lo meno a un coppa Italia, per tacere d’una coppa dei Campioni che avrebbe trasformato la storia in leggenda; ha il nome di Andrea Arrica, presidente che fiutava affari a ripetizione e di uomini che hanno supportato un sogno trasformato in realtà: tre interisti come Domenghini, Gori e Poli sbolognati a inizio stagione dai nerazzurri; tre fiorentini come Albertosi, Brugnera e Mancin, lasciati andar via da un dirigenza che li considerava “bolliti”; e un nugolo di uomini pronti a immolarsi per la causa: i portieri Reginato e Tampucci, i difensori Zignoli, Martiradonna, Tomasini e Niccolai; i centrocampisti Cera, Nenè, Greatti e l’attaccante Nastasio, oltre ovviamente a Rombo di tuono.
Nessuno come loro in difesa, undici gol subiti, neanche la Juventus di Trapattoni e il Milan di Sacchi riuscirono successivamente a emulare quel bunker; nessuno come loro in campo, anticipazione all’italiana di quel calcio totale stile olandese che avrebbe poi fatto riempire la bocca di opinionisti più o meno impomatati, “pappagoni” dell’informazione pronti a dire che il giardino del vicino è sempre il migliore. Cinquant’anni dallo scudetto, cento dalla fondazione, venticinque dalla semifinale di coppa Uefa, date che si miscelano alla perfezione nel diadema di un club che rappresenta un popolo e un terra. Le autoreti di Niccolai, la frattura subita da Tomasini e Cera inventato libero, i cinque mesi di squalifica di Scopigno, le scorribande di Domingo, Gori spalla ideale dell’inarrivabile Riva (il suo record di marcature in azzurro resiste da 47 anni, neanche a Giuseppe Meazza riuscì un’impresa simile), sette rossoblù convocati per il mondiale messicano e via andare, a pensarci oggi viene da canticchiare il refrain d’un canzone di Claudio Baglioni, quel “troppo bello per essere vero” che ti fermi a pensare. E per quanto possa somigliare a un sogno, ti volti e guardando al passato ti accorgi che quella favola del 1970 è davvero esistita.
* giornalista sportivo romano – il testo è una anticipazione del libro “Cuore Cagliari, Coru Casteddaiu” pubblicato a fine mese da Bradipolibri.
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