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Il post Golpe: fin dove si spingerà Erdogan?

(di Jacqueline Rastrelli)* – Il tentativo di colpo di Stato in Turchia rischia di avere pesanti conseguenze sulle capacità di azione di questo pilastro della NATO, partner chiave degli occidentali su molti dossier di grande importanza, dalla lotta contro il jihadismo passando per la continua crisi/emergenza migratoria.

Già scosso quest’anno da diversi attentati, l’ultimo all’aeroporto internazionale Ataturk di Istanbul (47 morti), la Turchia esce indebolita dal golpe “abortito”, soprattutto in campo militare e securitario. L’arresto di migliaia di militari, docenti universitari e magistrati nel corso degli ultimi giorni ha, inoltre, risvegliato i timori di una svolta autoritaria del Presidente Recep Erdogan, con il rischio di inasprire ancor di più i già tesi rapporti tra l’UE e Washington.

Tre giorni dopo l’attentato mancato al cuore dello Stato turco, che ha fatto tremare il potere di Erdogan, il Governo si è tuttavia voluto mostrare rassicurante affermando, per voce del Primo Ministro, che “la Turchia ha i mezzi per far fallire tali tentativi di golpe, e il mondo deve saperlo”. Come per mostrare che il Paese manteneva le sue capacità militari, Yildirim ha assicurato che non ci sarebbe stato “alcun rallentamento nella lotta contro l’organizzazione terrorista separatista”, espressione utilizzata per definire il Partito del Lavoratori del Kurdistan (PKK).

Ma, con l’inizio di un vasto processo di purghe nelle ore immediatamente successive agli eventi, con il fermo di migliaia di militari, tra i quali 100 generali e ammiragli, l’esercito turco sembra piombato in una grave crisi. Queste purghe porteranno ad una “emorragia dei talenti” e all’indebolimento delle sue capacità di intervento, sottolinea Soner Cagaptay, direttore del programma di ricerca sulla Turchia presso il Washington Institute.

“I militari perderanno una parte importante dei loro cervelli, comprese le persone capaci di dirigere le operazione all’esterno, di cooperare con gli Stati Uniti, Siria e lotta all’Isis comprese”, spiega Cagaptay.

Molto impegnato dalla ripresa dei combattimenti contro il PKK nel sud-est del Paese, l’esercito turco, uno dei più potenti dell’Alleanza Atlantica, partecipa accanto alla coalizione anti-jihadista alle operazioni di contrasto all’Isis. La base americana di Incirlik (nel Sud della Turchia), utilizzata dalla coalizione internazionale anti-jihadista guidata dagli Stati Uniti, è stata teatro di tensioni dal tentativo di colpo di Stato, perché le autorità sospettano che i militari turchi di stanza lì possano aver aiutato i golpisti.

L’instabilità della quale è preda la Turchia potrebbe far aumentare anche il rischio di attentati, visto che il Paese è già stato colpito più volte da attacchi collegati alla ripresa delle ostilità con il PKK o agli jihadisti. “Il tentativo di colpo di Stato ha reso la Turchia più vulnerabile agli attacchi dell’Isis creando un vuoto importante e una situazione di crisi in campo di sicurezza e governance”, afferma Fuat Keyman, direttore del Centro di riflessione Istanbul Policy Center. Altra questione monitorata dai partner europei della Turchia, è l’afflusso verso l’Europa dei migranti, in gran parte siriani, che si è drasticamente ridotto dalla conclusione del controverso accordo tra Ankara e Bruxelles, siglato lo scorso marzo.

Il Presidente turco, che accusa un ex-alleato, il predicatore Fethullah Gulen, di essere il regista del golpe mancato, ha fatto sapere che chiederà alle capitali europee di estradare verso la Turchia i simpatizzanti di Gulen. “Vedremo quale sarà la loro reazione”, puntualizza Keyman.

Se Recep Tayyip Erdogan è riuscito a far fallire i militari ribelli, ora non dipende che da lui trasformare la prova di forza in qualcosa di cosntruttivo. All’indomani di quella notte drammatica che ha causato la morte di 290 persone, tra civili e militari, il Presidente turco ha in effetti in mano un’occasione unica per restaurare la sua immagine internazionale. Solo qualche mese fa, quello che i suoi avversari chiamano “il Sultano”, era l’incarnazione di quello che si chiama logoramento del potere, che esercita, come Primo Ministro prima e come Presidente in seguito, da tredici anni: deriva autoritaria, spaccatura con l’opinione pubblica culminata con le manifestazioni del 2013 e loro repressione, manie di grandezza il cui simbolo è il suo Palazzo di Ankara, degno di un Ceaucescu.

I turchi oggi sono ancora divisi su questo personaggio che confonde, ma dopo essersi messo contro la quasi totalità dei suoi vicini, la Turchia ha cominciato quest’anno ad uscire dall’isolamento. Il potere, che ha per lungo tempo chiuso gli occhi sui traffici dell’Isis sul suo territorio, si è deciso a mettervi ordine. Ciò gli è valso una serie di sanguinosi attacchi, ma anche di ridare lustro al suo blasone internazionale. Parallelamente, tenta di sotterrare i contenziosi che lo vedevano opporsi a due grandi attori della regione: Russia e Israele.

Un accordo di riconciliazione per i fatti del 2010 è stato firmato il mese scorso, con tanto di scuse del Governo diretto da Benjamin Netanyahu. Il riavvicinamento a Mosca sarà forse più laborioso, ma il rammarico espresso recentemente dalla Turchia che aveva abbattuto un caccia russo lo scorso anno e gli interessi comuni nella lotta all’Isis dovrebbero mettere fine alla serie infinita di comunicati bellicosi che caratterizzano le relazioni bilaterali tra i due Paesi dall’inizio del conflitto siriano.

Il tentativo di colpo di Stato sventato ha tutti i numeri per entrare nella lista degli eventi che possono restaurare l’immagine di Erdogan agli occhi delle capitali straniere, a meno che lui non ceda alla tentazione della repressione a 360°. E’ questo che ha voluto dire Angle Merkel sottolineando, subito dopo i fatti, che i golpisti dovevano essere trattati “secondo le regole dello Stato di diritto”. In effetti, i primi segnali che arrivano da Ankara lasciano temere il peggio. Sulla sorte riservata ai facinorosi, il Primo Ministro Yildirim ha dichiarato che “i codardi avrebbero avuto al pena che si meritavano”, aggiungendo che la pena di morte, abrogata in Turchia, poteva essere ristabiliti in un attimo. Il Ministro della Giustizia a sua volta ha puntualizzato che se erano stati già arrestati 6000 sospetti, “la pulizia stava andando avanti”. Una pulizia che non si limita alle caserme, ma ha preso di mira magistrati e giudici.

Questa repressione potrebbe compromettere i miglioramenti registrati dalla diplomazia turca, ma anche il laborioso riavvicinamento con l’Unione Europea.

  • giornalista romana specializzata in “Esteri” e politica internazionale
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