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L’Islanda e quell’incomprensibile (per noi) politically correct

 

(di Massimiliano Morelli)* – “La peggior sconfitta della nostra storia. L’Inghilterra è stata battuta da un Paese che ha più vulcani che calciatori professionisti. Ben fatto, Islanda”. Parola di Gary Lineker, capocannoniere del mondiale 1986 con la nazionale inglese.

Ecco, diventa inevitabile il preambolo di uno dei migliori calciatori britannici della storia, che fa pubblica ammenda per il tracollo di una nazionale che mezzo secolo fa, di questi tempi, stava per conquistare il suo unico trofeo internazionale. E per tornare a quell’incredibile 1966, non si può che paragonare il 2-1 appena inflitto ai nipoti di Bobby Moore all’1-0 griffato dal nordcoreano Pak Doo-Ik subìto dall’Italia di Mondino Fabbri.

Ecco, col fatto che vengono da lassù, estremo nord del vecchio continente, a questi islandesi in molti li hanno scambiati per gente che scende dalla montagna del sapone, salvo ricredersi dopo averli visti sbarcare prima come debuttanti tutt’altro che allo sbaraglio all’Europeo e poi ai quarti di finale dopo aver affossato l’Inghilterra.

Fortuna che questi isolani del nord non s’offendono manco se gli tiri i capelli e senza ombra di dubbio sono la perfetta espressione del politically correct: Aron Einar Gunnarsson, barbuto capitano della nazionale, ricevette un “ma te chi sei?” da Cristano Ronaldo dopo la richiesta di scambio di maglia al termine del pareggio 1-1 della sua nazionale col Portogallo; ma neanche se la prese a male, anzi i compagni di squadra gli comprarono la divisa-replica del suo idolo e nessun islandese polemizzò.

E qui va pure aggiunto che nessuno ha risposto all’ex Chelsea Lampard: poco prima dell’ottavo di finale ha scritto che gli veniva da ridere quando ha saputo che l’Inghilterra avrebbe affrontato l’Islanda. Beh, le conferme non mancano per intuire che non è certo il regno delle diatribe la terra emersa che sta a metà strada fra Groenlandia e Gran Bretagna, e che ha investito nel calcio per salvare i ragazzi dall’alcolismo e dalla dipendenza delle sigarette.

E a dirla tutta pare un po’ la Sardegna quest’Islanda, isola felice allocata nel bel mezzo dell’oceano che costrinse l’Europa a fermarsi una settimana quando, nel 2010, il vulcano Eyjafjallajokull generò una nube di cenere capace di paralizzare il traffico aereo dalla Scandinavia fino al nord d’Italia.

Anzi, piace a tutti adesso l’Islanda, che fa fantasticare terre incontaminate e spazi abbondanti per vivere bene, dove non bisogna sgomitare per trovare un posto a sedere in una sala cinematografica, senza il logorio della vita moderna e senza bisogno di bere un Cynar.

Preferiscono sorseggiare lo Jólaöl e il Brennívin da quelle parti, e con buona pace delle radici vichinghe sanno certamente vivere in santa pace, forse perché puntano sulla semplicità e sulle buone maniere. Sono in trecentoventimila nell’isola felice, e in dodicimila si sono spostati in Francia per la rassegna calcistica dove la squadra allenata da un mister che ha il nome adattabile a un profumo, Lars Lagerbäck, ha fatto tornare alla mente il trionfo europeo della Danimarca, che nel 1992 vinse la kermesse continentale dopo essere stata ripescata perché la guerra dei Balcani stava impedendo alla Jugoslavia, qualificata di diritto, di prenderne parte.

Un po’ come il Leicester quest’anno, imprevedibile come il Verona di Bagnoli di trent’anni fa; e qui c’è pure da paragonare questo capitombolo reale della squadra di Hodgson a quello sgambetto del Catania ai danni dell’Inter di Herrera che fece sgorgare dalla voce non ancora rauca di Sandro Ciotti la frase “clamoroso al Cibali”, anno di grazia 1961.

Beati gli islandesi, che alla fine si concedono quel “geyser sound” davanti al proprio pubblico, inno alla gioia scambiato (erroneamente) da molti per l’Haka neozelandese. Qui, nel Paese della pizza, degli spaghetti e del mandolino non riusciamo a capacitarci della vostra semplicità.

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Massimiliano Morelli

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