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Sanità italiana: buona, ma con troppe disparità, non solo nord/sud!

La tutela della salute pubblica e gli investimenti a supporto del “Servizio Sanitario Nazionale” (SSN) sono diventati di estrema attualità in questi ultimi mesi, caratterizzati dalla quarantena obbligatoria e dalla diffusione di un virus ancora sconosciuto. Per questa ragione pubblichiamo un contributo tecnico, perchè abbiamo visto che, anche nello sport (a partire dal calcio), sarà sempre più importante il rispetto dei protocolli medico-sanitari per la ripartenza dell’intero settore. 

Il nostro SSN ha ottimi livelli ma differenze regionali marcate. Abbiamo bisogno di più efficienza e di una visione lungimirante.  

È del tutto normale che in un momento come questo in molti si siano fatti tante domande sul nostro Sistema Sanitario, solitamente avvertito come un bene ovvio, e divenuto invece un tema sensibile dopo la pandemia da Covid-19.

Vorrei fare alcune considerazioni e proposte, alla luce della mia lunga esperienza di manager nella sanità privata.

Quando i cittadini si sentono più fragili si innalza l’esigenza di protezione. E allora, poniamoci fino in fondo la domanda che aleggia legittimamente nella testa di molti: al di là dell’emergenza contingente, quanto è in grado di proteggerci il nostro Sistema Sanitario?

In termini generali la risposta è positiva, specie se consideriamo il rapporto qualità/prezzo. Non dobbiamo tuttavia lasciarci confondere da un quadro generale che però nasconde nelle sue pieghe gravi ingiustizie e inefficienze. Diversi indicatori ci dicono che il nostro Sistema nel complesso merita la sufficienza. Ne basti uno: l’Italia per aspettativa di vita è seconda in Europa con una media di 83,1 anni (ricerca Cergas su Dati Istat 2018). Inoltre, come emerge dagli indicatori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, le performance del nostro servizio sanitario lo collocano ai primi posti in Europa e nel mondo. Non sfiguriamo nel confronto con gli altri paesi europei, ma siamo un po’ come quelle persone che appaiono belle nell’insieme anche se a vederle da vicino e nel dettaglio deludono.

Una delle maggiori criticità, che talvolta le statistiche possono velare, è quella delle disparità Regionali e socio-economiche, per altro in via di aumento anziché in via di attenuazione.  Secondo il rapporto “Lo Stato della Salute in UE” (dati 2019) le persone che risiedono nelle Regioni più ricche del nord vivono oltre tre anni in più rispetto a chi vive in quelle meno prospere del sud. Ma le disparità non sono solo geografiche. Le persone meno istruite, infatti, vivono in media 4,5 anni in meno rispetto a quelle più istruite.

Bastano alcuni dati a fotografare questa situazione lungo la nostra Penisola. In Alto Adige la speranza di vita è in media di 83,7 anni, dato che diventa di 82,1 in Calabria, 81,6 in Sicilia e addirittura 81,1 in Campania (fonte Istat 2017). Se poi, anziché soffermarci sulla speranza di vita generale, analizziamo  la “speranza di vita alla nascita”, le differenze si fanno ancora più marcate. In Alto Adige la media è di 70,3 mentre all’estremo opposto, in Calabria, è di 52,2.

Anche dal punto di vista dell’accessibilità abbiamo un dato generale positivo, ma una volta sgranati i numeri ci si accorge che siamo di fronte al celebre pollo di Trilussa. In Italia i bisogni sanitari “non soddisfatti” sono  bassi: solo il 2% della popolazione lamenta un bisogno non soddisfatto, e quando lo fa riguarda principalmente i tempi di attesa e i costi. Ma se guardiamo il dato più da vicino ci accorgiamo che le fasce di popolazione a basso reddito e i residenti nelle Regioni meridionali incontrano maggior ostacoli per accedere ad alcuni servizi e hanno una probabilità quasi doppia  di riscontrare un bisogno sanitario non soddisfatto rispetto quelli del nord.

Su queste disparità incide solo in parte la quantità di risorse impiegate, che pure rappresentano un problema. Nel 2017 la spesa sanitaria pro-capite in Italia è stata pari a 2.483 euro (di cui 1. 846 a carico dello Stato), il 15% inferiore rispetto alla media dell’UE, che ammonta a 2.884 euro. Insomma per ogni cittadino spendiamo in media  400 euro all’anno meno che nel resto di Europa. Sempre nel 2017 la spesa sanitaria era pari all’8,8 % del Pil (118 mld di euro), un punto in meno della media europea che si attesta al 9,8 %.

Ma al di là della risorse assolute investite in salute, va comunque tenuto presente che il dato sulla spesa, una volta calato nel nostro federalismo sanitario, mostra differenze enormi tra Regione e Regione, non in termini di risorse ricevute ma in termini di impiego efficiente di quelle risorse. Un aspetto distorto della nostra Sanità sta infatti proprio nel fatto che Regioni diverse, con diversi livelli di servizio e diversa popolazione, ricevano praticamente le stesse risorse.

La storia recente ci dice che la spesa sanitaria a livello regionale è gestita in maniera inefficiente, non solo per i disavanzi nei conti, ma soprattutto per la scarsa qualità dei servizi assicurati ai cittadini dovuta a pubbliche amministrazioni inefficienti, a distorsioni clientelari e a un management meno incisivo. Non è un caso che le Regioni obbligate a piani di rientro dal deficit registrino un parallelo miglioramento nell’erogazione dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza). Questo vuol dire che spendere meno talvolta significa spendere meglio.

Sono due, dunque, le sfide per la sanità italiana del futuro.

La prima riguarda proprio l’aspettativa di vita e l’invecchiamento della popolazione, con i costi che si porta dietro. La dinamica demografica eserciterà nei prossimi anni una considerevole pressione sul Sistema Sanitario e sulle strutture di assistenza a lungo termine. Per dare una buona assistenza a tutti, nella consapevolezza che non siamo in un’epoca di abbondanza di fondi pubblici, sarà necessaria una maggiore efficienza. Questa potremo ottenerla facendo evolvere gli attuali modelli organizzativi e di cura, per esempio aumentando la prevenzione per ridurre i fattori di rischio e spostando l’assistenza per le malattie croniche fuori dalle strutture ospedaliere. Ma abbiamo anche bisogno di monitorare costantemente l’andamento della spesa sanitaria, responsabilizzando maggiormente le Regioni nell’uso appropriato delle risorse, e di diffondere le best practices sanitarie e organizzative, che pure sono tante nel privato e nel pubblico.

La seconda sfida riguarda le disparità di accesso alle cure e nei tempi di attesa, che penalizza alcuni territori e alcune fasce di popolazione, compito che spetta al governo centrale, mentre le Regioni devono programmare l’offerta, organizzare e gestire i servizi. Ritengo, alla luce della mia esperienza nella Sanità, che sia necessario affiancare all’attuale sistema premiale un meccanismo che premi le Regioni virtuose, ad esempio  concedendo loro più autonomia nella pianificazione, sostenendo di converso le Regioni con performance più basse con il supporto delle Regioni virtuose, oltre che del Ministero della Salute e di Age.na.s. (l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali), soprattutto attraverso il trasferimento di competenze.

Credo sia proficuo creare – sotto la regia di una pianificazione pubblica lungimirante – una rete di eccellenze nazionali, a partire dagli IRCSS e dagli ospedali pubblici e privati accreditati, per presentarci in Europa con una rete nazionale pubblico–privata competitiva in termini di ricerca e di assistenza, approfittando anche della forte capacità di investimento del privato.

La pandemia da Coronavirus sta rendendo ancora più palese di prima il fatto che la spesa sanitaria non è un costo ma un investimento e che la tutela della salute è, oltre che un diritto dell’individuo, anche interesse della collettività sancito dalla Costituzione, ma che va conquistato e difeso ogni giorno con tenacia, lungimiranza, investimenti e buona gestione.

Roberto Cupellaro*

*Executive Manager della sanità – già  Direttore Divisione Ospedali , “Lifenet Healthcare” – Milano

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