Addio, Nino. Campione di una altra epoca!

(di Carmelo Pennisi)* – In Nino Benvenuti non c’era la solerzia consuetudinaria di Cassius Clay nel ricordare che era nero, discendente di schiavi e rinato grazie all’Islam, che gli aveva consegnato anche il nuovo nome di Muhammad Alì. Eppure il pugile più iconico della storia della boxe italiana non ha mai fatto assurgere il “Magazzino 18” del porto di Trieste, quel reticolo di mobilio, valigie, oggetti di ogni tipo e foto lasciati dai profughi istriani in fuga dal furore ideologico “titino” e da trattati internazionali che a volte ratificano il “diritto” a scapito della memoria e del sangue, a vessillo di un trauma esistenziale con cui giustificare tutta la sua vita.
Certo la ferita c’era; un fratello stravolto dalle persecuzioni jugoslave e la madre morta di crepacuore perché il ricordo dell’odore della terra natia provoca sismi all’animo e turbolenza esistenziale inconsolabile. “Siamo stati male accolti in campi profughi e insultati dai comunisti italiani”, racconterà in seguito il campione, ma questo non gli farà mai perdere il sorriso e la voglia di salire sul ring per rappresentare anche quella parte del Paese che avrebbe voluto vomitare quei 200mila italiani cacciati dai loro luoghi e rimossi dalla storia. Il quadrato di un ring ti insegna che i cazzotti si danno e si prendono, e alla fine ciò che conta è riuscire a rimanere in piedi con onore, nella vittoria come nella sconfitta. Rimanere in piedi senza una corona mondiale o senza una terra forse non è la stessa cosa, se consideriamo la furia ancestrale da “Mocovì” di Carlos Monzon una espressione di talento e non di suprematismo etnico o ideologico.
Ma prima di incontrare lo scoglio insuperabile di Carlos Monzon, con cui poi diventerà amico, il pugile istriano scrive una pagina memorabile dello sport italiano, andando a conquistare nel 1967 il titolo mondiale dei “Pesi Medi” contro Emile Griffith, che secondo tutta la stampa americana possedeva l’aurea dell’imbattibilità. Ma il “Madison Square Garden” è il fiume carsico che scorre nella storia politico/culturale/sportivo dell’America, è il luogo dove lo spirito di Primo Carnera, un altro italiano di confine e primo atleta azzurro a conquistare un titolo mondiale nella boxe, continua ad aleggiare ad indicare come la saga di “Rocky Balboa” non sia un nugolo di film nati da onanismo di fantasia, ma vita vissuta.
Lo sport è riscatto individuale e soprattutto di chi si rappresenta, ecco quindi spiegato il motivo di quasi 18 milioni di italiani che nella notte tra il 17 e il 18 aprile 1967 rimasero incollati accanto ad una radio per vivere il sogno americano escusso ad un americano da parte di un italiano, che consegna al nostro Paese il titolo mondiale dei “Pesi Medi”. L’entusiasmo nella penisola è qualcosa di indescrivibile; le rovine sentimentali della guerra rovinosamente persa sono ancora lì, dietro un angolo che fa fatica a sparire, e vincere contro il sogno americano, simbolo onnisciente dello strapotere a stelle e strisce nel globo, reca agli italiani qualcosa più di una speranza, ma la certezza di poter conquistare un posto nel nuovo mondo nato dopo le vicende della II Guerra Mondiale.
Trieste, città d’adozione del nuovo padrone dei “Medi”, è in delirio per questa vittoria e gli rende omaggio scendendo in piazza per acclamarlo. Forse la ferita del “Magazzino 18” si è rimarginata, ma la cicatrice resta. E ne “Il Mio Esodo dall’Istria, libro scritto con Mauro Grimaldi, urla tutto il suo dolore: “ci sono storie che non si possono dimenticare. La mia è una di quelle. Di un popolo intero. Cacciato, umiliato, calpestato, strappato dalla propria terra senza che nessuno, dico nessuno, abbia alzato un dito per difenderlo… io non ho mai dimenticato.
Chi sono, da dove vengo, le mie origini”. “L’Esodo è stato un allenamento a superare i momenti duri e difficile”, sin da quando, rimasto a Isola con i nonni perché non se la sentiva di abbandonarli dopo che i genitori erano riparati a Trieste, aveva combattuto nella piazza di Maribor mandando a tappeto un pugile yugoslavo: “con quella vittoria sentivo di aver un po’ vendicato la tragedia del mio popolo”. Lo sport, come detto, è storia di riscatto individuale e collettiva, e quindi, dopo aver perso il titolo dei Medi nel secondo incontro con Griffith il 29 settembre del 1967, il campione istriano completa la celebre “Trilogia di Griffith” il 4 marzo del 1968, andandosi a riprendere la corona al “Madison Square Garden”. E’ il punto più alto della sua carriera, poi giunge il ciclone Carlos Monzon, e scendendo da sconfitto per knock-out tecnico dal ring allestito nello “Stadio Louis II”, capisce che è il momento di smettere di dare e ricevere pugni e dichiara conclusa la sua carriera.
E’ l’8 maggio 1971. Si conclude così una epopea sportiva in una Italia che sta vivendo radicali cambiamenti, Nino Benvenuti e la leggendaria vittoria per 4 a 3 sulla Germania nella semifinale dei mondiali messicani del 1970, fanno calare definitivamente il sipario su quel “BelPaese” uscito dalla guerra in cerca di riscatto e di sogni. E’ una “italianità” che non si vedrà mai più, ed è proprio lo sport a raccontarlo in modo chiaro. Benvenuti, per sua stessa ammissione, vivrà una vita felice e appagante anche lontano dalla boxe, senza mai dimenticarsi degli avversari avuti sul ring, e anzi diventandone grande amico e senza mai esitare nell’andare in loro soccorso. Quando Emile Griffith fece “coming out” sulla sua omosessualità, il primo pugile a farlo, trovò proprio Benvenuti a sostenerlo al suo fianco. E’ stato generoso e disponibile a fare sempre la prima mossa per riconciliarsi con le persone con cui aveva avuto inevitabili dissapori.
Verso la fine della sua vita la cicatrice si era nuovamente fatta sentire, e lo aveva spinto a ritornare ad Isola a cercare la ragione di una malinconia: “sono stato ad Isola, ho rivisto la casa dove sono nato, i posti rimasti uguali e anche le tante cose cambiate, ma ho ritrovato il mio paese. Tutto si è rimescolato, ma ho trovato il paese buono che avevo lasciato”. Non era fatto per provare rabbia o rancore, era un pugile nell’animo, e i pugili non riescono a restare lontani dal dolore, ma gli vanno ogni volta incontro per ritrovare ogni volta il senso di un destino. Nino Benvenuti ha dato lustro e ha contribuito a rendere grande l’Italia, ma ha espresso che le sue ceneri siano sparsi nel mare dell’Istria. Terra e sangue, ah che mistero inestricabile. Un gancio destro può solo lambirlo.
- giornalista sportivo, scrittore e sceneggiatore cinematografico