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Professionismo per le calciatrici: sì, ma all’interno di percorso di crescita graduale non sull’onda di una moda

(di Marcel Vulpis) – Da giorni si sta parlando di introdurre il “professionismo” nel calcio femminile, che tanto ha fatto onore al movimento calcistico nazionale e allo sport in generale (chiudendo la propria esperienza al Mondiale di Francia nei quarti di finale). Ben vengano queste manifestazioni di estremo interesse per lo sport. Non esiste uno sport di genere, ma esiste lo sport, maschile o femminile che sia.

Ma da più parti, specie dai media, si vuole a tutti i costi dare al calcio femminile il professionismo, come se esso rappresentasse il vero riconoscimento non solo giuridico, ma soprattutto economico, alle calciatrici italiane.

Ma ci si chiede banalmente: ma perché le ragazze del volley, che l’anno scorso hanno entusiasmato l’Italia intera arrivando secondi al mondiale, non meritano lo stesso riconoscimento e la stessa dignità?

Certo che lo meritano, come tutte le atlete, e gli atleti, che vivono per lo sport e attraverso lo sport percepiscono un reddito a volte sufficiente per il proprio fabbisogno e per la propria famiglia.

Ma ci si domanda ancora: perché le atlete del volley non sono ancora diventate professioniste, visto che da tanti, tanti anni sono al massimo livello mondiale?

La risposta è molto semplice, ed è il motivo, come vedremo più avanti, della presente discussione.

Perché la Federazione volley ha deciso, a suo tempo, che sia la massima serie maschile sia quella femminile non dovessero essere competizioni professionistiche, perché non conveniva alle società sportive. Troppi costi per la gestione di atlete professioniste: bisogna pagare, ad esempio, i contributi previdenziali, Dicono le società sportive: come paghiamo poi gli ingaggi ai giocatori da centinaia migliaia di euro, se non milioni di euro?

Il sistema non può reggere, questa è la semplicistica risposta che ci sentiamo dire ogni volta che si tocca il tema del professionismo.

Ecco allora che è intervenuto sul tema il presidente della FIGC Gabriele Gravina, in un’intervista di sabato scorso: “…Abbiamo suggerito al Governo una proposta che consentirebbe alle società di calcio femminile, così come per il primo livello (la serie C) del professionismo maschile, di attutire l’impatto dei costi del professionismo, beneficiando di un credito d’imposta da reinvestire nel settore giovanile e nelle infrastrutture”.

Gabriele Gravina – presidente FIGC (fino a pochi mesi fa in Lega Pro).

Dunque, sgravi fiscali per sopportare il costo del beneficio del professionismo.

Ma allora non é questione di riconoscimento e dignità delle persone, é solo una questione di soldi.

E allora che dovrebbe dire il basket professionistico? Non ha pari dignità, se non superiore, anzi superiore, al primo livello del professionismo, la Serie C per intenderci, del calcio? E le donne del basket che fine fanno? Ma vogliamo parlare del nuoto, della scherma, dello sci? Tutte atleti dilettanti, eppure vere e proprie  “lavoratrici” sportive.

Va benissimo la proposta di Gravina. E’ una idea di fiscalità di vantaggio e la prendiamo anche seriamente in considerazione, ma non si deve parlare solo di “sgravi fiscali”. Bisogna infatti uscire dalle ipocrisie di fondo che, da sempre, si insinuano nel mondo sportivo ed incidono profondamente (purtroppo) nel sistema.

E qui arriviamo alla riforma sportiva oggetto della presente discussione.

L’articolo 4 è il fulcro della riforma che il Governo vuole portare avanti, l’articolo che, per intenderci, vuole definire una volta per tutte i rapporti di lavoro sportivo tra i lavoratori/lavoratrici sportivi da una parte, e, lasciatemi usare questa espressione, le imprese sportive, dall’altra parte. Siano essi dilettanti, siano essi professionistici, siano essi semiprofessionistici, come leggo da molte parti.

I dilettanti, come dimostrano i sani principi del dilettantismo internazionale da De Cubertin ai giorni nostri, sono quelli che praticano l’attività sportiva in modo saltuario, che non vivono grazie allo sport, ma in modo amatoriale si sono avvicinati a quel mondo.

I professionisti sono invece quelli che vivono di sport e solo di sport. Guadagnano tanto, per sé e per la loro famiglia, sono imprenditori di se stessi. Non ci sono solo i calciatori, ovviamente, ci sono famosi giocatori di pallavolo, famose nuotatrici o sciatrici, schermitori o schermitrici.

La differenza è che, a parte i calciatori (e i giocatori di basket di A1), tutti gli altri sono considerati ancora oggi dilettanti, non hanno contratti, non godono della maternità, della pensione, del tfr, della indennità di disoccupazione.

In questa marasma totale, intervengono i corpi militari, che colmano il vuoto normativo assumendo atleti e atlete e facendoli diventare lavoratrici a tempo indeterminato, con uno stipendio, una tredicesima, la maternità, accumuli contributi.

E per chi non fa parte dei corpi militari? Rimane dilettante, senza tutele.

Si capisce allora che con la delega si vuole in primis individuare (come si legge alla lettera c) dell’articolo 4) la figura del lavoratore sportivo, “indipendentemente dalla natura dilettantistica o professionistica dell’attività sportiva svolta”.

Come facciamo allora a individuarla? l’unica maniera è calcolare il reddito.

Non c’è altro metodo, che sia meramente certo ed obiettivo.

Di recente è stato presentato un emendamento che Fratelli d’Italia (FdI) aveva anche presentato in commissione, e ripresenta ora, mira proprio a questo: stabilire“limiti, criteri e soglie di natura economica legate ai redditi dei lavoratori sportivi … che individuino in modo certo, obiettivo e coerente la natura professionistica e dilettantistica del lavoratore sportivo”.

Una volta determinata la soglia, è facile individuare

  • chi è il vero dilettante, che può essere rimborsato delle sole spese sostenute,
  • chi è il vero professionista, colui che mantiene sé e la sua famiglia senza alcun aiuto, e
  • chi sta in mezzo, cioè tutti quei lavoratori sportivi che guadagnano anche grazie allo sport, ma hanno bisogno di essere sostenuti dalle proprie aziende sportive, come fanno, in un paradosso del tutto italiano, i corpi militari.

E’ l’apertura ad un semiprofessionismo, che è nella sostanza dei fatti.

E allora ben vengano i “crediti di imposta” evocati dal presidente FIGC Gravina o altre agevolazioni.

Ma mettiamo una volta per tutte la parola fine ad una “ipocrisia” tutta tipicamente italiana,

FDI aveva, nell’emendamento sopra ricordato, evidenziato anche la necessità di individuare le “aziende sportive”, sulla base del proprio fatturato. Società come quelle della pallavolo dei massimi campionati, maschi o femminili, o del basket di A2, del rugby, della pallanuoto, superano abbondantemente fatturati di 1 milione di euro. Sono imprese, non onlus.

In realtà sono semplicemente società dilettantistiche, soltanto perché così ha deciso il Presidente della federazione di turno.

Altra ipocrisia del nostro sistema.

Queste aziende, invece sono a tutti gli effetti vere e proprie società professionistiche e, come tali, devono fornire ai propri lavoratori sportivi le stesse tutele degli atleti professionistici.

Costa troppo? Il sistema non regge? La pallavolo o il basket muoiono?

Allora ben venga l’intervento dello Stato con forme agevolative, e non solo per il calcio di Serie C, come richiede il presidente FIGC Gravina, ma anche, ad esempio, il basket di Serie A, laddove le aziende sportive, come si legge alla lettera d) della proposta di legge delega, valorizzano la formazione dei lavoratori sportivi, dei giovani e dei c.d. “fine carriera”. Occorre formare i lavoratori sportivi, investiamo soldi nella loro preparazione culturale, non vivranno solo di medaglie olimpiche e mondiali, occorre formarli per il futuro.

In questo ambito, va ricordato al Governo che non esistono soltanto gli atleti, ma anche altre figure che sono state definite nella proposta di legge delega come “collaboratori di carattere amministrativo gestionale di natura non professioniale”. Se in questa definizione ci sono anche i preparatori atletici, i massaggiatori, i segretari amministrativi, i medici, nulla questio. Non si sono sicuramente quelle figure di lavoratori negli ambiti degli esports, in quanto gli esports non costituiscono una disciplina sportiva. Dovrebbero esserlo, ma nel frattempo cominciamo, come richiesto da FDI nel suo “emendamento”, a dare loro un rapporto di lavoro ben individuato, seguendo l’unica legislazione esistente all’interno dell’Unione Europea, quella cioè francese.

Qualcuno sostiene che manchino le risorse. Cominciamo piuttosto a distribuirle in modo più equo, almeno quelle relative ai diritti televisivi del calcio di Serie A, che “cannibalizza” (a partire dalla “Lega B”) tutte le finestre espositive delle altre competizioni calcistiche e alle altre discipline sportive.

Si ricorda che la Bundesliga conferisce il 20% alla Bundesliga 2, Premier League e Ligue tra il 10% e il 19% alla Serie cadetta, la Liga il 13,5% dei diritti tv e il 40% dei ricavi dal marketing associativo.

L’emendamento proposto da FDI (all’articolo 4, lettera g), trasformato in un ordine del giorno, prevede che la mutualità vada distribuita, con un percentuale più elevata rispetto a quella oggi risibile, non solo alle competenti calcistiche, ma anche al basket (come era originariamente stabilito dal decreto Melandri del 2008), alla Autorità Nazionale Anticorruzione per svolgere un lavoro di prevenzione e formazione nei confronti delle scommesse clandestine e al fondo antiludopatia per contrastare gli effettivi negativi del gioco e delle scommesse.

Un ultimo cenno al ruolo del “laureato” alle scienze motorie.

FDI ha chiesto, con l’emendamento proposto all’articolo 2, diopo il quarto comma, della proposta di legge delega, che venga con forza ristabilito, nell’ambito delle istituzioni scolastiche e in quel che la proposta di legge delega chiama centri sportivi scolastici, il ruolo dell’educatore fisico (che noi abbiamo chiamato del “benessere fisico”, perché assume un ruolo centrale anche sulla salute, non solo alimentare, dei ragazzi).

L’educatore fisico va preso dai corsi di laurea di Scienze Motorie, corsi di laurea che vanno tuttavia rafforzati sotto il profilo della managerialità, della professionalità e della determinazione delle figure sportive che possono, e devono, ogni possibilità per accedere al mondo del lavoro.

Anche tali figure, dall’educatore fisico al manager sportivo, deve avere un ruolo specifico in tutto il sistema dello sport, che faticosamente questo Parlamento sta cercando di portare avanti.

 

 

 

All newsAltri SportCalcioCalcio.InternazionaleDiritti TelevisiviEconomia E PoliticaEditorialiFair Play FinanziarioFIFA - UEFAFiscohome pageIstituzione e AttualitàSerie A - Serie BSerie BSport FederazioniSport.BusinessSport.Dilettantistico - Ass. Sportive

Professionismo per le calciatrici: sì, ma all’interno di percorso di crescita graduale non sull’onda di una moda

(di Marcel Vulpis) – Da giorni si sta parlando di introdurre il “professionismo” nel calcio femminile, che tanto ha fatto onore al movimento calcistico nazionale e allo sport in generale (chiudendo la propria esperienza al Mondiale di Francia nei quarti di finale). Ben vengano queste manifestazioni di estremo interesse per lo sport. Non esiste uno sport di genere, ma esiste lo sport, maschile o femminile che sia.

Ma da più parti, specie dai media, si vuole a tutti i costi dare al calcio femminile il professionismo, come se esso rappresentasse il vero riconoscimento non solo giuridico, ma soprattutto economico, alle calciatrici italiane.

Ma ci si chiede banalmente: ma perché le ragazze del volley, che l’anno scorso hanno entusiasmato l’Italia intera arrivando secondi al mondiale, non meritano lo stesso riconoscimento e la stessa dignità?

Certo che lo meritano, come tutte le atlete, e gli atleti, che vivono per lo sport e attraverso lo sport percepiscono un reddito a volte sufficiente per il proprio fabbisogno e per la propria famiglia.

Ma ci si domanda ancora: perché le atlete del volley non sono ancora diventate professioniste, visto che da tanti, tanti anni sono al massimo livello mondiale?

La risposta è molto semplice, ed è il motivo, come vedremo più avanti, della presente discussione.

Perché la Federazione volley ha deciso, a suo tempo, che sia la massima serie maschile sia quella femminile non dovessero essere competizioni professionistiche, perché non conveniva alle società sportive. Troppi costi per la gestione di atlete professioniste: bisogna pagare, ad esempio, i contributi previdenziali, Dicono le società sportive: come paghiamo poi gli ingaggi ai giocatori da centinaia migliaia di euro, se non milioni di euro?

Il sistema non può reggere, questa è la semplicistica risposta che ci sentiamo dire ogni volta che si tocca il tema del professionismo.

Ecco allora che è intervenuto sul tema il presidente della FIGC Gabriele Gravina, in un’intervista di sabato scorso: “…Abbiamo suggerito al Governo una proposta che consentirebbe alle società di calcio femminile, così come per il primo livello (la serie C) del professionismo maschile, di attutire l’impatto dei costi del professionismo, beneficiando di un credito d’imposta da reinvestire nel settore giovanile e nelle infrastrutture”.

Gabriele Gravina – presidente FIGC (fino a pochi mesi fa in Lega Pro).

Dunque, sgravi fiscali per sopportare il costo del beneficio del professionismo.

Ma allora non é questione di riconoscimento e dignità delle persone, é solo una questione di soldi.

E allora che dovrebbe dire il basket professionistico? Non ha pari dignità, se non superiore, anzi superiore, al primo livello del professionismo, la Serie C per intenderci, del calcio? E le donne del basket che fine fanno? Ma vogliamo parlare del nuoto, della scherma, dello sci? Tutte atleti dilettanti, eppure vere e proprie  “lavoratrici” sportive.

Va benissimo la proposta di Gravina. E’ una idea di fiscalità di vantaggio e la prendiamo anche seriamente in considerazione, ma non si deve parlare solo di sgravi fiscali. Bisogna infatti uscire dalle ipocrisie di fondo che, da sempre, si insinuano nel mondo sportivo ed incidono profondamente (purtroppo) nel sistema.

E qui arriviamo alla riforma sportiva oggetto della presente discussione.

L’articolo 4 è il fulcro della riforma che il Governo vuole portare avanti, l’articolo che, per intenderci, vuole definire una volta per tutte i rapporti di lavoro sportivo tra i lavoratori/lavoratrici sportivi da una parte, e, lasciatemi usare questa espressione, le imprese sportive, dall’altra parte. Siano essi dilettanti, siano essi professionistici, siano essi semiprofessionistici, come leggo da molte parti.

I dilettanti, come dimostrano i sani principi del dilettantismo internazionale da De Cubertin ai giorni nostri, sono quelli che praticano l’attività sportiva in modo saltuario, che non vivono grazie allo sport, ma in modo amatoriale si sono avvicinati a quel mondo.

I professionisti sono invece quelli che vivono di sport e solo di sport. Guadagnano tanto, per sé e per la loro famiglia, sono imprenditori di se stessi. Non ci sono solo i calciatori, ovviamente, ci sono famosi giocatori di pallavolo, famose nuotatrici o sciatrici, schermitori o schermitrici.

La differenza è che, a parte i calciatori (e i giocatori di basket di A1), tutti gli altri sono considerati ancora oggi dilettanti, non hanno contratti, non godono della maternità, della pensione, del tfr, della indennità di disoccupazione.

In questa marasma totale, intervengono i corpi militari, che colmano il vuoto normativo assumendo atleti e atlete e facendoli diventare lavoratrici a tempo indeterminato, con uno stipendio, una tredicesima, la maternità, accumuli contributi.

E per chi non fa parte dei corpi militari? Rimane dilettante, senza tutele.

Si capisce allora che con la delega si vuole in primis individuare (come si legge alla lettera c) dell’articolo 4) la figura del lavoratore sportivo, “indipendentemente dalla natura dilettantistica o professionistica dell’attività sportiva svolta”.

Come facciamo allora a individuarla? l’unica maniera è calcolare il reddito.

Non c’è altro metodo, che sia meramente certo ed obiettivo.

Di recente è stato presentato un emendamento che Fratelli d’Italia aveva anche presentato in commissione, e ripresenta ora, mira proprio a questo: stabilire“limiti, criteri e soglie di natura economica legate ai redditi dei lavoratori sportivi … che individuino in modo certo, obiettivo e coerente la natura professionistica e dilettantistica del lavoratore sportivo”.

Una volta determinata la soglia, è facile individuare

  • chi è il vero dilettante, che può essere rimborsato delle sole spese sostenute,
  • chi è il vero professionista, colui che mantiene sé e la sua famiglia senza alcun aiuto, e
  • chi sta in mezzo, cioè tutti quei lavoratori sportivi che guadagnano anche grazie allo sport, ma hanno bisogno di essere sostenuti dalle proprie aziende sportive, come fanno, in un paradosso del tutto italiano, i corpi militari.

E’ l’apertura ad un semiprofessionismo, che è nella sostanza dei fatti.

E allora ben vengano i crediti di imposta evocati dal presidente FIGC Gravina o altre agevolazioni.

Ma mettiamo una volta per tutte la parola fine ad una “ipocrisia” tutta tipicamente italiana,.

FDI aveva, nell’emendamento sopra ricordato, evidenziato anche la necessità di individuare le “aziende sportive”, sulla base del proprio fatturato. Società come quelle della pallavolo dei massimi campionati, maschi o femminili, o del basket di A2, del rugby, della pallanuoto, superano abbondantemente fatturati di 1 milione di euro. Sono imprese, non onlus.

In realtà sono semplicemente società dilettantistiche, soltanto perché così ha deciso il Presidente della federazione di turno.

Altra ipocrisia del nostro sistema.

Queste aziende, invece sono a tutti gli effetti vere e proprie società professionistiche e, come tali, devono fornire ai propri lavoratori sportivi le stesse tutele degli atleti professionistici.

Costa troppo? Il sistema non regge? La pallavolo o il basket muoiono?

Allora ben venga l’intervento dello Stato con forme agevolative, e non solo per il calcio di Serie C, come richiede il presidente FIGC Gravina, ma anche, ad esempio, il basket di Serie A, laddove le aziende sportive, come si legge alla lettera d) della proposta di legge delega, valorizzano la formazione dei lavoratori sportivi, dei giovani e dei c.d. “fine carriera”. Occorre formare i lavoratori sportivi, investiamo soldi nella loro preparazione culturale, non vivranno solo di medaglie olimpiche e mondiali, occorre formarli per il futuro.

In questo ambito, va ricordato al Governo che non esistono soltanto gli atleti, ma anche altre figure che sono state definite nella proposta di legge delega come “collaboratori di carattere amministrativo gestionale di natura non professioniale”. Se in questa definizione ci sono anche i preparatori atletici, i massaggiatori, i segretari amministrativi, i medici, nulla questio. Non si sono sicuramente quelle figure di lavoratori negli ambiti degli esports, in quanto gli esports non costituiscono una disciplina sportiva. Dovrebbero esserlo, ma nel frattempo cominciamo, come richiesto da FDI nel suo emendamento, a dare loro un rapporto di lavoro ben individuato, seguendo l’unica legislazione esistente all’interno dell’Unione Europea, quella cioè francese.

Qualcuno sostiene che manchino le risorse. Cominciamo piuttosto a distribuirle in modo più equo, almeno quelle relative ai diritti televisivi del calcio di Serie A, che “cannibalizza” (a partire dalla “Lega B”) tutte le finestre espositive delle altre competizioni calcistiche e alle altre discipline sportive. Si ricorda che la Bundesliga conferisce il 20% alla Bundesliga 2, Premier League e Ligue tra il 10% e il 19% alla Serie cadetta, la Liga il 13,5% dei diritti tv e il 40% dei ricavi dal marketing associativo.

L’emendamento proposto da FDI (all’articolo 4, lettera g), trasformato in un ordine del giorno, prevede che la mutualità vada distribuita, con un percentuale più elevata rispetto a quella oggi risibile, non solo alle competenti calcistiche, ma anche al basket (come era originariamente stabilito dal decreto Melandri del 2008), alla Autorità Nazionale Anticorruzione per svolgere un lavoro di prevenzione e formazione nei confronti delle scommesse clandestine e al fondo antiludopatia per contrastare gli effettivi negativi del gioco e delle scommesse.

Un ultimo cenno al ruolo del “laureato” alle scienze motorie.

FDI ha chiesto, con l’emendamento proposto all’articolo 2, diopo il quarto comma, della proposta di legge delega, che venga con forza ristabilito, nell’ambito delle istituzioni scolastiche e in quel che la proposta di legge delega chiama centri sportivi scolastici, il ruolo dell’educatore fisico (che noi abbiamo chiamato del “benessere fisico”, perché assume un ruolo centrale anche sulla salute, non solo alimentare, dei ragazzi).

L’educatore fisico va preso dai corsi di laurea di Scienze Motorie, corsi di laurea che vanno tuttavia rafforzati sotto il profilo della managerialità, della professionalità e della determinazione delle figure sportive che possono, e devono, ogni possibilità per accedere al mondo del lavoro.

Anche tali figure, dall’educatore fisico al manager sportivo, deve avere un ruolo specifico in tutto il sistema dello sport, che faticosamente questo Parlamento sta cercando di portare avanti.

 

 

 

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