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Brexit/Regno Unito: tragedia annunciata oppure opportunità?

(di Paolo Rivelli)* Sicuramente per i toni usati, soprattutto per il Regno Unito, sarà ricordata come una campagna piuttosto ruvida, ma la posta in gioco era importante e nessuno voleva rinunciare a dire le sue ragioni.

Il Regno Unito si è trovato da solo a dover decidere il proprio destino, di fronte ad una svolta forse epocale, anche se lontana dagli scenari apocalittici prospettati della maggior parte dei media. Dopo aver assistito ancora una volta ad una grande dimostrazione di democrazia da parte dei sudditi di Sua Maestà , che, proprio in questi giorni, il 15 giugno, hanno festeggiato gli 801 anni della Magna Charta, il primo documento fondamentale per il riconoscimento universale dei diritti dei cittadini, andando a scavare e ricercare emerge in realtà una situazione ben diversa.

Sicuramente ci troviamo di fronte ad una scelta non solo economica, ma sociale e soprattutto politica. Non è una opinione isolata che una uscita dalla UE non avrebbe un impatto così negativo nel lungo termine per l’economia del Regno Unito, che potrebbe anche beneficiarne nel breve. Gran parte del dibattito a cui abbiamo assistito nei giorni scorsi sulla Brexit era basato su presupposti sbagliati. Molto probabilmente né una permanenza né una uscita dall’Unione sarebbe utile al Regno Unito. Infatti in entrambi gli scenari dal punto di vista economico, i fondamentali dell’economia rimangono sostanzialmente inalterati.

In alcuni scenari positivi, come quello di Open Europe, se la Gran Bretagna seguisse un percorso di apertura economica, potrebbe sovra performare l’Unione europea. In tal caso, Brexit potrebbe far aumentare di almeno il 1,6% il reddito nazionale entro il 2030. Inoltre un’uscita dalla UE eliminerebbe il costo sostenuto per la sua appartenenza, che alcuni (come Patrick Minford e Vidya Mahambare) identificano in costi in corso di adesione, ulteriori costi futuri di armonizzazione, condivisione delle pensioni e appartenenza al euro, come tra il 3,2% e il 3,7% del PIL.

Mentre altri (come Civitas) stimano il ricorrente costo netto annuale tra circa il 3 e il 5% del PIL. Altre stime più pessimistiche (Tim Congdon) quantificano questo costo pari al 10% del suo PIL, che sarebbe determinato principalmente dai costi della regolamentazione – 5,0% del reddito nazionale – e i costi di cattiva allocazione delle risorse – 3,25% .

Secondo London School of Economics il Regno Unito, nel caso di Brexit e adesione alla Associazione europea di libero scambio ridurrà il proprio PIL di un valore che va dal 2,2% e il 9,5%, mentre secondo l‘Unione degli Industriali il beneficio netto del PIL per l’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione europea è stimato in circa il 4-5%, tra i £ 62bn e £ 78bn per anno.

Uno studio apposito commissionato a Capital Economics, ci mostra che Brexit potrebbe avere un modesto impatto negativo sulla crescita e la creazione di posti di lavoro, anche se più probabilmente esso sarà modestamente positivo. L’incertezza economica potrà spingere verso il basso il valore della sterlina, ma questo fattore potrà aiutare il settore del export.

Sarà tuttavia un fenomeno relativamente temporaneo, dove avere una valuta più debole sarà potenzialmente stimolante per l’economia. Dal punto di vista del mercato del lavoro questo allontanamento dalla UE potrebbe portare alla perdita di posti di lavoro nel settore bancario, HSBC ha avvertito che potrebbe essere costretta a passare 1.000 posti di lavoro, mentre i leader della maggior parte delle grandi banche sostengono che una Brexit metterebbe in pericolo il primato della City di Londra come centro finanziario d’Europa, e le prospettive di crescita di tutta l’economia in generale.

Il settore più penalizzato sarebbe quello dei servizi finanziari, anche fatti salvi i diritti acquisiti dei lavoratori nel settore  il Regno Unito perderebbe comunque influenza nel mercato unico.

In materia di immigrazione, il saldo migratorio annuale dall’Europa è più che raddoppiato dal 2012, raggiungendo 183.000 marzo 2015 e sta attualmente aumentando la forza lavoro di circa il 0,5% all’anno. Questo ha contribuito a sostenere la capacità dell’economia di crescere senza spingere in alto salari e inflazione. La politica molto probabilmente cambierà in maniera restrittiva verso il lavoro poco qualificato e che punterà ad attirare lavoratori più altamente qualificati. Questo potrebbe creare qualche problema per i settori a basso salario che dipendono da lavoratori migranti, come l’agricoltura, di contro potrebbe beneficiare altri settori con carenza di manodopera altamente qualificata. Sugli investimenti esteri, le preoccupazioni per una contrazione risulterebbero sono un po’ esagerate, anche se ci potrebbe essere un rallentamento soprattutto nel primo periodo di rinegoziazione del nuovo rapporto con l’Unione Europea.

Per le finanze pubbliche sarebbe un vantaggio indubbio, con un risparmio immediato stimato in circa 10 miliardi di £ all’anno di contributi al bilancio dell’Unione, anche se le turbolenze potrebbero diminuire questo beneficio. Un indubbio vantaggio si avrebbe anche sul commercio, in quanto un accordo commerciale più favorevole sarebbe inevitabile dopo la Brexit , lasciando alla bilancia commerciale un vantaggio nel lungo periodo, potendo la Gran Bretagna usare la sua ritrovata libertà per negoziare nuovi accordi più favorevoli.

Forse le previsioni catastrofistiche avevano una accezione più politica che reale, temendo che un allontanamento del Regno Unito potesse destabilizzare più l’Europa, in fondo qualcuno ci fa notare che con l’uscita del Regno Unito, la UE ha perso il 12% della popolazione e il 17% del PIL.

Certamente indebolita nella sua immagine e con tanti fantasmi che premono alle porte, dai populismi agli immigrati. Forse va riconsiderata l’idea di Europa che si è voluta privilegiare in questi anni, una cura della sua millenaria anima, piuttosto che del suo apparato burocratico.

  • esperto di mercati/valute e Financial Advisor di Allianz Bank in Roma

 

 

 

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