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IL CALCIO FEMMINILE VUOLE LA FIGC E MINACCIA LO SCIOPERO

(di Andrea Ranaldo) – La Nazionale di calcio femminile si è qualificata, lo scorso giugno, ai Mondiali del 2019. Un traguardo che mancava da 20 anni, e che certifica i progressi di un movimento che si prefigge, ora, un obiettivo ancora più importante: approdare nel mondo del professionismo. L’entrata in scena della “Juventus Women, a cui è seguita, proprio in queste settimane, quella di Milan e Roma, sembrava il preludio al tanto atteso passaggio di testimone, ma il processo di cambiamento è al momento frenato dal ricorso, vinto, da parte della Lega Nazionale Dilettanti. Situazione che scontenta le calciatrici, che si dichiarano pronte a “bloccare” ogni tipo di competizione per difendere i propri diritti.

LO SCONTRO

La prima tappa si vive il 3 maggio del 2018, quando attraverso una delibera la FIGC ha annunciato di volersi occupare in prima persona dei Campionati nazionali di calcio femminili, precedentemente in mano alla Lega Nazionale Dilettanti. Il 24 maggio la LND presenta il ricorso al Tribunale Federale, e il 26 luglio la Corte Federale d’Appello modifica la decisione della FIGC, dando ragione alla Lega Nazionale Dilettanti. In attesa del verdetto definitivo della Corte di Giustizia, le società di Serie A e Serie B femminile, le calciatrici con l’Associazione italiana calciatoti (AIC) e le allenatrici con l’Associazione italiana allenatori calcio (AIAC), si sono schierate apertamente: “Dalla comunicazione della FIGC è emersa la ferma volontà di far crescere il calcio femminile. Per questo si ritiene opportuno continuare il percorso intrapreso dalla FIGC. In attesa che il Collegio di Garanzia del Coni si pronunci, auspicando una decisione che ripristini la competenza della FIGC a organizzare i campionati nazionali, è stata raggiunta la decisione di non prendere parte ad alcuna attività ufficiale organizzata dalla LND”.

ANCHE LA POLITICA SCENDE IN CAMPO

La presa di posizione delle calciatrici ha trovato il pieno supporto dei parlamentari e delle ex giocatrici della Nazionale di calcio femminile, che proprio oggi hanno diramato un comunicato stampa sull’argomento: “Nell’anno in cui la Nazionale femminile si qualificata per i Mondiali, rendendo orgogliosi tutti gli appassionati di sport, siamo più convinte della necessità di sostenere il passaggio organizzativo della A e B di calcio femminile alla FIGC, per avviare politiche di sviluppo in linea con altre federazioni europee”. L’appello continua: “Riteniamo importante, e in sintonia con gli obiettivi che la Nazionale parlamentari si è posta sin dalla nascita, sostenere le ragioni delle calciatrici, degli allenatori-allenatrici e delle società unite, auspicando che i vertici di FIGC e LND vogliano incontrarsi a breve”.

IL PROFESSIONISMO IN ITALIA

La questione del professionismo, in Italia, è di ampissima portata. Ad oggi le federazioni professionistiche sono solo quattro: calcio, basket, golf e ciclismo; nessuna di queste riconosce le donne, che sono quindi viste, in tutto e per tutto, come delle dilettanti. Questo non si traduce, solamente, in salari molto più bassi – lo stipendio annuale massimo di una calciatrice italiana, spalmato su dieci mensilità e proposto sotto forma di rimborso spese, ammonta a 23.800€ -, ma anche in tutta una serie di mancate tutele: significa non avere diritto alla pensione, alla maternità, al TFR, ed essere, di fatto, costrette a trovare delle alternative. Ecco perché molte atlete – ma lo stesso riguarda anche gli uomini per gli sport non professionistici- decidono di entrare in un corpo militare.

IL MONITO DEL PARLAMENTO EUROPEO

Il 5 giugno del 2003 il Parlamento europeo ha approvato, a larghissima maggioranza, una risoluzione su “Donne e Sport” in cui si invitavano gli Stati membri ad assicurare alle donne pari accesso alla pratica sportiva; a sostenere lo sport femminile, sollecitando a sopprimere la distinzione fra pratiche maschili e femminili nelle discipline ad alto livello; a garantire, da parte delle federazioni sportive nazionali, gli stessi diritti in termini di reddito, di condizioni di supporto e di allenamento, di accesso alle competizioni, di protezione sociale e di formazione professionale, nonché di reinserimento sociale attivo al termine delle carriere sportive. Tante belle parole, a cui purtroppo non sono mai seguiti i fatti. Una risoluzione di questo genere non è legalmente vincolante: ecco perché l’Italia, così come molti altri Paesi dell’UE, sono ancora molto lontani dall’attuarla.

 

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