Olimpiadi

Olimpiadi – Il flop delle aziende italiane in Cina

da L’Occidentale

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Il barone De Coubertin diceva che alle Olimpiadi l’importante è partecipare. Nessuno ormai ci crede più, tanto meno i cinesi, che si apprestano ad ospitare i Giochi più costosi e più visti della storia. Giochi trasformati dal regime, fin dal momento dell’assegnazione nel 2001, in un formidabile strumento di propaganda, interna ed esterna, e soprattutto in una inimmaginabile  opportunità di affari. Tra organizzazione, impianti sportivi, infrastrutture (strade, aeroporti, metropolitane), sistemi di sicurezza, progetti a difesa dell’ambiente, Pechino 2008 in 7 anni si è infatti trasformata in una torta da 37 miliardi di dollari.
Nei giorni scorsi, vari giornali nazionali hanno celebrato l’Italia che a Pechino “ha già vinto”. Il riferimento era alle 40 imprese del Belpaese che, a vario titolo, saranno di scena alle Olimpiadi. Dalla vicentina Margraf, che ha fornito i rivestimenti in marmo del nuovo terminal dell’aeroporto pechinese, alla Mondo, azienda piemontese che ha avuto l’onore di realizzare la pista di atletica dello Stadio Olimpico. Tra i contratti di maggior peso della “squadra azzurra” quelli della Tecnogym, ormai storico fornitore a 5 cerchi delle attrezzature da palestra (più una decina di centri di allenamento) e la Merloni, che si è aggiudicata l’appalto per l’impianto solare del Villaggio Olimpico. Tanto di cappello a questi marchi del Made in Italy, che sono riusciti a farsi largo nonostante la concorrenza di altissimo livello. Tuttavia, si tratta di commesse che, nei casi più fortunati, si aggirano intorno ai 10 milioni di euro ciascuna. Siamo sicuri che questo sia sufficiente per gridare vittoria all’Italia, che sulla carta fa parte del G8? Se il business olimpico, come abbiamo ricordato, è di 37 miliardi di dollari, noi italiani abbiamo davvero raccolto le briciole.
A firmare la sentenza di condanna per il nostro sistema imprenditoriale era stato, già nel (lontano?) 2004, il Sole 24 Ore che titolava: “Olimpiadi di Pechino, l’Italia è fuori”. Fuori dal “banchetto olimpico”, s’intende, perché – scriveva il corrispondente dalla Cina – l’Italia è “un Paese che non ha più industrie, è arrivata troppo tardi in Cina rispetto alla concorrenza e dopo lustri e lustri di vuoto politico”.
Per capire le dimensioni del nostro fallimento, basta osservare a quale tavolo hanno giocato le altre grandi nazioni europee, per non parlare degli Stati Uniti. Dei 15 impianti costruiti nuovi di zecca per i Giochi (più il rifacimento di 17 esistenti), nessuno è stato affidato, almeno per la parte principale, a un italiano. L’ormai celebre stadio a nido d’uccello – che resterà probabilmente il simbolo architettonico delle Olimpiadi – è stato progettato dallo studio svizzero Herzog & De Meuron (insieme a uno studio cinese. Le aziende cinesi, soprattutto quelle pubbliche, giocando in casa, hanno naturalmente fatto la parte del leone negli appalti. Inoltre, per legge, in Cina non si può costruire niente senza la partecipazione diretta dei cinesi stessi).
Pechino, però, sotto la spinta delle Olimpiadi, non ha pensato solo agli impianti sportivi. La commissione per la pianificazione e la riforma del comune aveva previsto altri 376 progetti in città. Tra i 22 principali (un investimento da 6,6 miliardi di dollari), il più imponente è stato la costruzione o l’ampliamento di 4 linee della metropolitana, per un totale di 103 km. Come al solito i cinesi hanno coordinato i lavori, ma nel progetto hanno comodamente trovato posto la tedesca Siemens e la francese Alstom, uno dei più grandi gruppi al mondo nel settore delle infrastrutture per l’energia e per i trasporti (che controlla anche la nostra Fiat Ferroviaria, quella per capirci che costruì il mitico Pendolino).
Altra realizzazione faraonica – per dimensioni e costi – è la nuova sede della tv di stato cinese (CCTV), che ha una inconfondibile struttura a doppia L rovesciata. Chi l’ha progettata? L’architetto olandese Rem Koolhas, insieme al progettista di origine tedesca Ole Scheeren. Costo finale: 800 milioni di dollari. Probabilmente una cifra simile non è mai stata spesa per un solo edificio.
Naturalmente non si può dimenticare il nuovo, avveniristico, terminal dell’aeroporto di Pechino: i marmi della vicentina Margraf sui pavimenti sono un vanto e un bel vedere, ma hanno un peso specifico limitato in un progetto da 2,8 miliardi di dollari. E la firma che spicca in calce è quella (inglese) di Norman Foster.
Più complicato avere informazioni e numeri precisi su tutto il business della sicurezza, che renderà quelle di Pechino le Olimpiadi più blindate, spiate e, si spera, sicure di sempre. Difficile, però, ipotizzare che i cinesi abbiano speso meno di quello che uscirà dalle casse dell’Expo milanese del 2015 (cioè 500 milioni di euro). A dividersi le commesse in Cina sono stati americani (of course), tedeschi, israeliani e persino canadesi.
Ennesimo terreno di confronto, impietoso, tra Italia e il resto del mondo (che conta) è quello delle sponsorizzazioni ai Giochi. Questa volta i grandi marchi non hanno incassato soldi, li hanno dovuti tirare fuori. Ma, visto che si calcola che Pechino 2008 verrà vista, almeno per un minuto, da 5 miliardi di persone (!!!), è facile intuire il ritorno di immagine e i guadagni. La prima a fiutare l’affare è stata la Coca Cola. Appena i Giochi vennero assegnati a Pechino, realizzò migliaia di lattine speciali per l’occasione. Qualche mese dopo, era il primo sponsor globale della manifestazione. Rapidamente la lista si è allargata alla cinese Lenovo e poi Samsung, Panasonic, Visa, Adidas, Wolkswagen, Bank of China, Air China. La lista completa si trova sul sito ufficiale delle Olimpiadi. Su quasi 50 nomi, uno soltanto è italiano, la già ricordata Tecnogym. A fondo pagina, poi, tra i  “Beijing 2008 Olympic Games Suppliers” – citati per nome ma senza logo – c’è la Mondo. Gli sponsor più munifici hanno puntato anche 100 milioni di dollari su Pechino. Ma si sono anche garantiti un posto in prima fila negli appalti futuri della Cina, un gigante che prevede di costruire 138 aeroporti e 500 alberghi, di cui 80 a cinque stelle.
ll quadro, per l’Italia, dunque è tutt’altro che esaltante. D’altra parte non si può sperare molto di più da una nazione che ha smantellato tutte le sue industrie strategiche e che investe in ricerca percentuali misere del Pil. E a questo aggiunge errori strategici sulla via della Seta, come organizzare l’anno dell’Italia in Cina nel 2006, in contemporanea a quello russo (per tanti motivi molto più visibile). Inoltre, mentre Putin due anni fa andò in Cina ben tre volte, Berlusconi non si fece mai vedere. Fu Prodi, suo successore a Palazzo Chigi, ad organizzare, in autunno, una tardiva missione in Cina.
Persa la partita delle Olimpiadi, il rischio è che l’Italia finisca in fuorigioco anche all’Expo di Shanghai, che nel 2010 (cioè domani..) accoglierà 70 milioni di visitatori.

Essere controcorrente è stato sempre una peculiarità di questa agenzia on-line. Per questa ragione pubblichiamo un articolo interessante uscito nelle ultime ore sul portale L’Occidentale, dove viene data una lettura opposta (rispetto ai media nazionali) della presenza delle aziende tricolori durante Pechino.

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Marcel Vulpis

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