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IL CALCIO ITALIANO TRA MODELLI DI BUSINESS E NUOVI ASSET STRATEGICI

(di Daniele Bartocci) – Un business evoluto che non si pone limiti. In Italia il pianeta calcio ha subito, nel corso dei decenni, una straordinaria “rivoluzione” sotto il profilo industriale ed economico-finanziario, tramutandosi in un fenomeno mediatico senza precedenti e soprattutto in un mercato e di grande fascino all’interno del sistema Paese.

Stando agli ultimi dati, nel nostro Paese vengono stimate circa 35.000 imprese operanti nel settore sportivo e oltre 100.000 addetti, con un valore aggiunto prodotto dalle realtà attive nel campo di circa 4,5 miliardi di euro.

I numeri sono assolutamente emblematici, con l’auspicio che vengano presto implementati – in alcuni casi revisionati – determinati modelli di business e strategie di valorizzazione dell’intero movimento.

Nuovi asset strategici nascono e si evolvono, obbligando la Football Industry e relativiplayer ad essere al passo con i tempi se non vuole incorrere a drastiche conseguenze in termini di performance e redditività. 

Se è vero che, sotto un profilo Football Benchmark, al momento i club calcistici di A generano meno ricavi rispetto ai principali campionati esteri (2,1 miliardi di euro contro i 5,3 miliardi in Premier League), è altrettanto vero che il calcio italiano nel 2017 è riuscito ad esprimere una consistenza notevole a livello di fatturato che abbatte quota 3,3 miliardi di euro, con una contribuzione al fisco di oltre 1 miliardo.

E’ inutile nasconderlo, risulta assai difficile, se non impossibile, per numerose società italiane replicare il fenomeno ‘Manchester United” che può vantare un fatturato pressoché analogo a quello del brand Ducati680 milioni di euro contro 750 milioni di euro. 

Secondo un recente report a cura di Deloitte dal titolo “Il calcio in Italia: fenomeno sociale e settore da valorizzare”, le sfide che deve affrontare ogni giorno il nostro calcio sono di certo complesse e fanno riferimento a fattori di straordinaria rilevanza, in particolar modo eccessiva dipendenza dai diritti tv, fenomeno globalizzazione (in Premier più della metà dei club sono finanziati da proprietà estere), dimensione dei fatturati e raccolta di capitali.

Argomenti che vanno di pari passo con la necessità di rinnovamento delle nostre strutture sportive (solo 2 stadi costruiti negli ultimi 10 anni contro i 26 in Polonia), tra l’altro non sempre sfruttate efficacemente, con un’età media di quasi 70 anni rispetto ai 37 del massimo campionato di Germania. 

Alcuni massimi esponenti del monitoraggio targato Deloitte hanno enfatizzato l’essenzialità del concetto di “innovation”, ritenuto vitale per esplorare nuove opportunità in termini di metodologia sportiva, generazione di performance e di talento.

Nel contempo hanno sottolineato come il raggiungimento della mission finale ovvero del risultato sportivo sia influenzato da specifiche peculiarità relative al business di settore: si pensi ad esempio alle repentine dinamiche concorrenziali, alla volatilità e incertezza di investimenti e valore degli asset e, non ultima per ordine di importanza, all’eccessiva esposizione di tipo mediatico.

Ecco perché diviene fondamentale implementare modelli di business chiari, efficaci e sostenibili, nonché intervenire in maniera progressivamente crescente su determinate leve strategiche come l’ottimizzazione dei ricavi da match-day e la capitalizzazione di innovazioni tecnologiche.

Il tutto supportato da un quadro normativo e sociale ben delineato, se possibile all’avanguardia, che possa condurre il modello tradizionale di gestione societaria verso una logica sportiva propositiva e di carattere prettamente industriale.

In altri termini, un puzzle collettivo perfetto dove tutti i vari attori (associazioni, istituzioni sportive e politiche, media, sport influencer e nuovi player della comunicazione) possano sentirsi parte integrante al fine di giungere a una definitiva valorizzazione del ‘fenomeno’ calcio e, più in generale, del business sportivo.

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Redazione

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